Aids Fair Play - Gruppo Pro-Positivo Beta 2

CROI 2015

LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXII Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche, che si terrà a Seattle, negli Stati Uniti, dal 23 al 26 febbraio 2015.

  

PRIMO BOLLETTINO

Dati rivoluzionari dal fronte PrEP: con i farmaci preventivi le infezioni calano dell'86%
La notizia più entusiasmante proveniente da questa edizione del CROI riguarda la profilassi pre-esposizione (PrEP), ossia l'assunzione di antiretrovirali da parte di persone HIV-negative a scopi preventivi.
Due studi sulla PrEP condotti su uomini omosessuali e donne transessuali hanno dimostrato che, quando è possibile assumere la PrEP, il tasso di infezione da HIV diminuisce dell'86%. Si tratta dei più elevati livelli di efficacia mai registrati fino ad adesso, senza contare che sono superiori a quelli ottenuti con la maggior parte degli altri interventi di prevenzione. E il dato straordinario è che due studi indipendenti l'uno dall'altro – nei quali la PrEP è stata somministrata con modalità molto differenti tra loro – hanno riscontrato gli stessi identici livelli di efficacia.
Lo studio PROUD è stato condotto in Inghilterra, mentre lo studio IPERGAY in Francia e Canada. Per entrambi sono stati arruolati uomini che fanno sesso con uomini (MSM) e donne transessuali ad alto rischio HIV. I partecipanti infatti avevano multipli partner sessuali; utilizzavano il preservativo in modo incostante o irregolare; presentavano alti tassi di infezioni a trasmissione sessuale; molti avevano già avuto bisogno di ricorrere alla profilassi post-esposizione (PEP) in passato; e infine, facevano diffusamente uso di droghe. Generalmente si trattava di individui ben istruiti e con un'occupazione a tempo pieno.
Tutti e due erano stati concepiti come studi pilota che aprissero la strada a sperimentazioni più ampie in futuro. Il fatto che entrambi abbiano dimostrato livelli di efficacia tanto elevati e statisticamente significativi su poche centinaia di partecipanti non solo testimonia l'efficacia preventiva della PrEP, ma rivela anche quanto sia alto il tasso di infezione in determinati gruppi di maschi omosessuali nei paesi occidentali.
I due studi presentavano però anche rilevanti differenze.
Nello studio PROUD, quello britannico, i partecipanti dovevano assumere giornalmente un combinato a base di tenofovir ed emtricitabina (Truvada); per il gruppo di controllo era invece prevista non già l'assunzione di un placebo, ma un inizio differito (di un anno) dell'assunzione dello stesso combinato.
Lo studio IPERGAY, invece, si proponeva di testare – per la prima volta – la fattibilità della cosiddetta PrEP 'intermittente'. Ai partecipanti è stato detto di assumere il farmaco solo prima e dopo l'effettivo rapporto sessuale: una dose nelle 24 ore precedenti il rapporto programmato e – se esso aveva effettivamente luogo – altre due dosi nei due giorni seguenti. È un approccio che senz'altro facilita l'aderenza terapeutica, senza contare che riduce i costi della terapia e limita gli effetti collaterali. Anche per questa sperimentazione è stato impiegato il Truvada; al gruppo di controllo è stato somministrato un placebo.
Lo studio PROUD ha registrato un tasso di nuove infezioni dell'1,3% all'anno nel gruppo che assumeva la PrEP, contro l'8,9% nel gruppo con inizio differito. Una differenza che, in termini percentuali, corrisponde a un'efficacia dell'86%.
Nello studio IPERGAY, invece, le nuove infezioni nel gruppo che riceveva la PrEP si sono fermate allo 0,9%, contro il 6,8% nel gruppo di controllo: anche qui, in termini percentuali la differenza è dell'86%.
Nei due studi, tra gli individui randomizzati per ricevere la PrEP, quelli che hanno contratto l'HIV sono complessivamente cinque. Si ritiene però che non abbiano effettivamente assunto i farmaci: quattro hanno smesso di presentarsi alle visite di controllo o restituivano i flaconi inutilizzati, mentre per quanto riguarda il quinto individuo, si pensa che abbia contratto il virus nel periodo precedente all'inizio dell'assunzione della PrEP.
Da entrambe le sperimentazioni sono emersi dati confortanti anche in termini di insorgenza di effetti collaterali e farmaco-resistenze nonché delle eventuali ripercussioni sul comportamento sessuale.
L'aderenza terapeutica è risultata più che buona in entrambi gli studi, malgrado le notevoli differenze nella somministrazione dei farmaci in termini di tempi e dosaggi. Lo studio PROUD mirava a riprodurre le condizioni reali di un paziente in Inghilterra, e ha dimostrato che i timori che l'aderenza sia scarsa sono da considerarsi infondati. IPERGAY invece mostra che gli MSM possono agevolmente assumere la PrEP in un modo compatibile con il loro stile di vita, massimizzando la propria sicurezza.

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Deludono i risultati dello studio su un microbicida vaginale
Dopo gli incoraggianti risultati degli studi sulla PrEP presentati alla Conferenza, una forte delusione arriva invece da un altro fronte della prevenzione HIV: FACTS 001, uno studio mirato a verificare l'efficacia di un gel microbicida vaginale a base di tenofovir, si è concluso con un nulla di fatto. Non è stata rilevata alcuna differenza nei tassi di infezione con HIV nelle donne che facevano uso di questo gel rispetto a quelle del braccio di controllo con placebo.
Non è il primo studio sui microbicidi a non dare i risultati sperati: gli altri però richiedevano tutti che le partecipanti applicassero il gel quotidianamente, mentre FACTS 001 mirava a testare l'efficacia dell'uso intermittente del microbicida: l'applicazione era infatti prevista solo una volta a ridosso del rapporto sessuale e una volta il giorno successivo. Gli autori puntavano a replicare i risultati di CAPRISA 004, lo studio che aveva fatto ben sperare nel 2010, ottenendo con quello stesso gel microbicida a base di tenofovir un'efficacia preventiva del 39%.
Con un numero di partecipanti che di poco superava le 2000, questo studio era più vasto di CAPRISA 004; l'età media delle donne reclutate, inoltre, era di 23 anni, quindi inferiore rispetto al precedente studio. Le donne più giovani sono infatti particolarmente vulnerabili all'infezione da HIV e al contempo possono incontrare particolari difficoltà ad attuare con costanza le strategie preventive.
Gli autori si sono preoccupati che le partecipanti potessero contare sul sostegno delle loro comunità e che avessero accesso a programmi educativi, il che ha effettivamente migliorato almeno parzialmente l'aderenza. Quella minoranza di donne riuscite a far uso del gel al tenofovir nell'80% delle occasioni in cui hanno avuto rapporti sessuali hanno avuto il 57% in meno di infezioni.
Nel complesso, tuttavia, l'aderenza è rimasta bassa, facendo sì che i tassi complessivi di infezioni da HIV nelle donne che hanno fatto uso del gel al tenofovir risultassero uguali a quelli delle donne che hanno usato il placebo (4% in entrambi i bracci).
Sono risultati che evidenziano come per le donne giovani e più vulnerabili all'infezione da HIV manchino ancora strategie preventive adeguate al loro stile di vita ed effettivamente attuabili.

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Terapia triplice più efficace nel prevenire la trasmissione dell'HIV da madre a figlio

Somministrando alle donne in gravidanza una terapia antiretrovirale basata su una combinazione di tre farmaci, così come raccomandato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si ottengono tassi sensibilmente più bassi di trasmissione dell'HIV da madre a figlio: è quanto emerge da uno studio randomizzato condotto in sette diversi paesi. Lo studio, denominato PROMISE, si è svolto nell'Africa sub-sahariana ed in India.
Per lo studio sono state arruolate 3529 donne in stato di gravidanza, in stato di salute generalmente buono, che non sarebbero altrimenti state considerate eleggibili per ricevere la terapia nei rispettivi paesi. Le partecipanti presentavano una conta mediana dei CD4 di 530 cellule/mm3 ed erano alla 26° settimana mediana di gravidanza.
Un gruppo è stato randomizzato per ricevere quella che l'OMS definisce 'opzione A': zidovudina a partire dalla 14° settimana di gestazione più una singola dose di nevirapina al momento del parto. Per i 14 giorni successivi, alle pazienti è stata inoltre somministrata una terapia a base di tenofovir e emtricitabina per ridurre al minimo il rischio che sviluppassero una resistenza alla nevirapina.
Un altro gruppo di partecipanti è stato invece randomizzato per ricevere l''opzione B', ossia una terapia triplice da assumere a partire dalla 14° settimana di gestazione fino a tutto il periodo dell'allattamento. Il regime era a base di inibitori della proteasi come lopinavir e ritonavir. A seconda della randomizzazione, come farmaci di backbone sono stati impiegati o lamivudina e zidovudina, o tenofovir e emtricitabina. (Quando lo studio era già stato avviato, l'OMS ha aggiornato le sue linee guida e raccomanda adesso un regime a base di efavirenz come opzione B).
Il tasso di trasmissione è risultato basso in entrambi i gruppi, ma con la terapia triplice calava ulteriormente, e in maniera sensibile: 0,6% contro 1,8%.
In termini di sicurezza, la somministrazione di terapia triplice è risultata associata a un rischio più elevato di eventi avversi di grado moderato oppure di esiti complicati, per esempio parti prematuri o bambini nati sottopeso. Non si sono invece rilevate differenze in termini di eventi di maggiore gravità.

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Africa, accesso al test HIV per le donne che allattano
Nei paesi africani ci sono alti tassi di infezione da HIV non diagnosticata nelle donne che allattano, il che espone i bambini a un elevato rischio di contrarre a loro volta il virus. Lo attestano i dati raccolti nell'ambito di un'indagine effettuata su 11.500 donne in tre diverse comunità, rispettivamente in Kenya, Malawi e Sudafrica. Le partecipanti hanno risposto a domande sulle cure prenatali che avevano ricevuto e si sono sottoposte al test per l'HIV (compreso quello per la diagnosi di infezione recente).
Sebbene oltre l'85% delle donne coinvolte avesse effettuato un test per l'HIV durante il periodo prenatale, è emerso che molte avevano contratto il virus successivamente, nel periodo di gestazione o in quello di allattamento: il 4% delle donne che avevano avuto esito negativo al test prima del parto e stavano ancora allattando al momento dell'indagine risultavano invece HIV-positive al momento dell'indagine.
Per giunta, c'è il rischio che queste donne abbandonino le cure, con il risultato che la loro carica virale sale a livelli elevati. A questo proposito, nell'indagine, si è osservata una certa divergenza nei dati a seconda del paese: la situazione in Kenya (dove alle donne in gravidanza la terapia antiretrovirale viene offerta per un periodo di tempo limitato, l''opzione A' dell'OMS) è risultata più grave di quella del Malawi (dove invece le donne in gravidanza possono ricevere le terapie a vita, o 'opzione B').
Gli autori dell'indagine auspicano pertanto che il test per l'HIV venga effettuato a più riprese nel corso della gestazione e per il periodo di allattamento, e che alle donne venga offerta la possibilità di effettuarlo anche in altri contesti, al di fuori del percorso di cure prenatali.

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CROI 2015 - Primo Bollettino

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La traduzione dei bollettini è a cura di LILA Onlus, con il sostegno del Circolo Aziendale GD.

SECONDO BOLLETTINO

Utile iniziare la terapia anche con conte CD4 oltre 500, emerge da uno studio africano

Iniziare la terapia antiretrovirale quando la conta dei CD4 è superiore a 500, anziché attendere che scenda al di sotto di quella soglia come raccomandato nelle linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ha mostrato di ridurre il rischio di tubercolosi, altre gravi patologie e morte del 44%.
È quanto emerge da uno studio denominato Temprano, svoltosi nell'arco di sette anni in Costa d'Avorio. La sperimentazione era volta a verificare sicurezza ed efficacia dell'inizio precoce della terapia nei contesti poveri di risorse con alta prevalenza di tubercolosi e infezioni batteriche, in confronto all'inizio nei tempi standard. Sembrerebbe che un inizio precoce della terapia, nei contesti dove tali infezioni colpiscono duramente le persone affette da HIV, possa dare grandi benefici.
Allo studio condotto in questo paese dell'Africa occidentale hanno preso parte poco più di 2000 individui HIV-positivi naive al trattamento (conta mediana dei CD4: 465 cellule/mm3) non affetti da tubercolosi attiva. I partecipanti sono stati randomizzati per iniziare la terapia immediatamente oppure nei tempi all'epoca raccomandati dalle linee guida OMS. Quando lo studio è cominciato, la soglia indicata dall'OMS era di 200 cellule/mm3, ma durante il corso della sperimentazione le linee guida sono state aggiornate ed tale valore è stato innalzato a 500.
Endpoint primario dello studio era un composito costituito da: evento AIDS-definente di qualsiasi natura, grave infezione batterica, cancro non-AIDS-correlato o morte da qualsiasi causa. Tali eventi si sono verificati a un tasso di 4,9 per 100 persone/anni nei pazienti randomizzati per iniziare la terapia secondo le linee guida OMS, contro un tasso di 2,8 eventi per 100 persone/anni in quelli che hanno iniziato subito ad assumere i farmaci, con una riduzione del rischio in termini percentuali del 44%.
Gli eventi avversi risultati più frequenti sono tubercolosi e infezioni batteriche. Come già osservato nello studio HPTN 052, l'inizio precoce si è mostrato particolarmente efficace nel ridurre l'incidenza della tubercolosi disseminata (anziché polmonare).
Nel follow-up a lungo termine, gli effetti collaterali dati dai farmaci non hanno mostrato di creare problemi degni di nota per i pazienti che hanno iniziato precocemente la terapia.
Lo studio Temprano ha inoltre valutato il beneficio clinico di un ciclo di trattamento preventivo della tubercolosi a base di isoniazide della durata di sei mesi. I membri dei due bracci dello studio sono stati anche randomizzati per ricevere o meno questo trattamento, e chi l'ha assunto ha avuto il 35% di rischio in meno di incorrere in eventi gravi.
I risultati vanno a confermare l'ipotesi che il criterio "soglia dei CD4" per l'inizio del trattamento sarebbe da abbandonare, lasciando che ognuno decida di iniziare la terapia antiretrovirale quando si sente pronto, almeno nei contesti poveri dove tubercolosi e infezioni batteriche sono tra le prime cause di malattia tra le persone HIV-positive.
Nell'arco dei prossimi due anni arriveranno i risultati dello studio START, che forniranno informazioni su rischi e benefici dell'inizio precoce della terapia nei paesi sviluppati.

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PrEP ed ART combinate praticamente azzerano il rischio di trasmissione in coppie sierodiscordanti

Una strategia terapeutica che combina la profilassi pre-esposizione (PrEP) e la terapia antiretrovirale (ART) in coppie eterosessuali in cui uno solo dei partner è HIV-positivo ha mostrato di poter azzerare quasi del tutto il rischio di trasmissione del virus al partner HIV-negativo. Inoltre, e questo è un aspetto cruciale, protegge dalla trasmissione non solo all'interno della coppia, ma anche in caso di rapporti al di fuori di essa.
È quanto emerge dallo studio Partners Demonstration Project, condotto in Kenya ed Uganda dagli stessi ricercatori dello studio Partners sulla PrEP (che già aveva dimostrato l'efficacia della profilassi pre-esposizione in coppie sierodiscordanti), ma coinvolgendo coppie che non avevano preso parte allo studio precedente.
Benché sia la PrEP che la ART abbiano mostrato di ridurre sensibilmente il rischio di trasmissione dell'HIV, talora l'assunzione di farmaci viene rinviata, oppure non è costante. Questa strategia combinata sfrutta l'azione della PrEP come una sorta di 'ponte', finché non è raggiunta la completa soppressione virale. Al partner HIV-negativo viene somministrata la PrEP fintanto che quello HIV-positivo non inizia la ART e durante i primi sei mesi di terapia.
Per individuare più accuratamente i soggetti maggiormente a rischio di trasmissione, è stato elaborato un 'punteggio di rischio', calcolato valutando fattori di rischio come giovane età, numero non elevato di figli, mancanza di circoncisione per l'uomo, convivenza anziché matrimonio, tasso di rapporti non protetti recentemente avuti e carica virale alta al baseline.
Fino ad ora, circa la metà delle 1013 coppie arruolate nello studio hanno assunto soltanto la PrEP, un quarto sia PrEP che ART, una su sei soltanto la ART, mentre una su dieci non assume né l'una né l'altra. Dagli esami ematici, l'aderenza a entrambi i trattamenti appare buona.
L'incidenza di nuove diagnosi di HIV in questo gruppo è stata messa a confronto con quella rilevata nel braccio di controllo con placebo dello studio Partners.
Sulla base di quei dati, ci si sarebbe aspettati che nelle coppie prese in considerazione dallo studio si verificassero circa 40 nuove infezioni, equivalenti a un tasso annuo di incidenza di 5,2%. Le infezioni effettivamente avvenute sono state invece solo due, equivalenti a un'incidenza annua dello 0,2%. Ed entrambe le infezioni si sono avute in individui a cui la PrEP era stata prescritta, ma che l'avevano interrotta.
La riduzione del tasso di infezioni è del 96%, un dato statisticamente molto significativo. Si tratta, è vero, di una riduzione simile a quella già osservata nello studio HPTN 052, ma quello studio prendeva in considerazione soltanto gli eventi di trasmissione al partner principale, mentre questo considera anche gli eventi di trasmissione a individui al di fuori della coppia.
Gli autori ritengono che sia opportuno raccomandare questa strategia combinata a tutte le coppie sierodiscordanti, anche perché potrebbero beneficiarne anche altri soggetti a rischio di infezione, come gli MSM e le donne single.
Alla Conferenza si è parlato anche di come l'impiego della PrEP sia in aumento a San Francisco, una delle comunità dove questa nuova forma di prevenzione è stata adottata da più tempo. Le persone che hanno assunto la PrEP lo scorso anno hanno superato le 5000; e tuttavia restano appena un terzo degli individui ad alto rischio di contrarre l'HIV in quella comunità. Se invece la PrEP venisse assunta dal 95% degli individui a rischio, secondo i ricercatori le infezioni potrebbero calare del 70%.

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Nuovo inibitore della maturazione si mostra promettente

Un inibitore della maturazione dell'HIV di seconda generazione denominato BMS-955176 ha mostrato di avere un buon profilo di sicurezza e un'elevata efficacia in un piccolo studio proof-of-concept di fase 2a. 
La terapia antiretrovirale di combinazione consiste in un insieme di farmaci che colpiscono l'HIV in diverse fasi del suo ciclo di vita. Nessuno dei principi attivi attualmente approvati, tuttavia, agisce sulle fasi di assemblaggio delle componenti virali, maturazione e fuoriuscita dalla cellula ospite. Per questo delle nuove classi di farmaci potrebbero essere di grande aiuto per i pazienti che hanno alle spalle dei fallimenti terapeutici e hanno sviluppato farmacoresistenze estese.
Un inibitore della maturazione noto come bevirimat aveva già dato prova di attività antivirale in studi precedenti, ma erano insorte difficoltà a livello di formulazione: oltre la metà dei soggetti che l'hanno sperimentato avevano ceppi virali poco suscettibili alla sua azione a causa di mutazioni spontanee nel gene Gag. Il BMS-955176 è invece un inibitore della maturazione di seconda generazione che sembra superare questo ostacolo.
Il BMS-955176 si è dimostrato notevolmente più efficace del bevirimat, dando prova della stessa attività antivirale con i ceppi di HIV di fenotipo selvaggio e quelli con polimorfismo del Gag al baseline. È inoltre risultato generalmente sicuro e ben tollerato in tutti i dosaggi sperimentati. Nei prossimi mesi è previsto l'avvio dello studio di fase 2b.

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La XDR-TB si diffonde da persona a persona, il fallimento terapeutico è una causa secondaria

La stragrande maggioranza degli individui affetti da tubercolosi estensivamente resistente ai farmaci (extensively drug-resistant tuberculosis, o XDR-TB) in Sudafrica non l'ha sviluppata come conseguenza di un fallimento terapeutico, bensì ha contratto l'infezione da altre persone. I dati provengono dallo studio di 400 casi di XDR-TB confermata dagli esami colturali nella provincia sudafricana di KwaZulu Natal.
La XDR-TB può effettivamente essere sviluppata a seguito di fallimenti plurimi nei trattamenti antitubercolari, che fanno sì che il paziente accumuli farmacoresistenza su farmacoresistenza. Si tratta in genere di pazienti già sottoposti a trattamento per la tubercolosi multifarmaco-resistente (MDR-TB). Tuttavia, tra i 400 pazienti presi in considerazione nello studio soltanto il 21% l'aveva sviluppata in questo modo.
Il restante 79% delle infezioni sono probabilmente da imputarsi a una trasmissione da persona a persona. Per quanto questa possa essersi verificata nel contesto ospedaliero, dal momento che metà di questi individui non erano mai stati in ospedale in precedenza, è probabile che la trasmissione sia avvenuta al di fuori.
L'analisi molecolare con determinazione del genotipo ha mostrato che molti dei 400 casi presentavano molte somiglianze a livello genetico, il che sarebbe coerente con l'ipotesi della trasmissione da persona a persona. Poco meno della metà di tutti gli isolati provenivano da un unico cluster di trasmissione, e di cluster ne sono stati identificati altri 22.
La trasmissione della XDR-TB nei contesti ospedalieri può essere ridotta attuando semplici misure a bassissimo costo, come ventilare bene le stanze dove vengono ospitati i pazienti con tale infezione e tenere separati i casi sospetti dagli altri pazienti. È inoltre importante che i test per la diagnosi dell'infezione da tubercolosi siano più rapidi e che i test di suscettibilità ai farmaci divengano disponibili ovunque.

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"Vacanza" dai farmaci nel fine-settimana per pazienti più giovani

Spesso mantenere l'aderenza a una terapia da assumere ogni giorno risulta più difficile per i giovani che per i pazienti più adulti. Alla Conferenza sono stati presentati dei dati molto incoraggianti in merito a un nuovo regime terapeutico mirato a consentire a bambini e adolescenti condurre normalmente la loro esistenza senza che l'aderenza ne risenta.
Per lo studio sono stati reclutati 199 giovani pazienti (età compresa tra gli 8 e i 24 anni, mediana 14) in sette Paesi europei, negli Stati Uniti, in Uganda, Thailandia e Argentina. Tutti seguivano un regime a base di efavirenz, presentavano carica virale non rilevabile e non avevano mai avuto rebound virali durante il trattamento. Erano in qualche modo pazienti atipici, perché tra i giovani le difficoltà ad aderire, i rebound virali, le farmacoresistenze e gli switch terapeutici sono molto diffusi.
I partecipanti sono stati randomizzati per ricevere o un trattamento a 'ciclo breve' o un trattamento ininterrotto. I pazienti del 'ciclo breve' assumevano i farmaci solo cinque giorni alla settimana, poi interrompevano per due giorni (solitamente il sabato e la domenica).
Il regime doveva essere a base di efavirenz perché questo farmaco resta più a lungo nel sangue: con qualsiasi altro agente, il regime non sarebbe stato sufficientemente sicuro.
Alla 48° settimana di follow-up non si sono riscontrate differenze in termini di rebound virali al di sopra delle 50 copie/ml: si sono verificati sei di tali casi nel gruppo del 'ciclo breve' e sette in quello del trattamento ininterrotto.
I ragazzi hanno accolto molto bene l'idea di un regime che consentisse loro di non assumere farmaci nel fine-settimana: tre quarti di loro hanno dichiarato che semplificava 'molto' la vita, soprattutto se volevano uscire nel fine settimana, perché molti sono riluttanti a far vedere che assumono farmaci. Il regime a 'ciclo breve' ha dato buoni risultati anche in termini di effetti collaterali.
Gli autori hanno sottolineato che si tratta di un risultato da prendere con molta cautela, e si sono raccomandati che nessuno inizi a saltare i farmaci nel fine-settimana prima che sia stata verificata al follow-up la sicurezza a lungo termine di questo tipo di regime. In particolare, questi dati valgono soltanto per pazienti che seguono un regime a base di efavirenz e che hanno carica virale non rilevabile e nessun precedente di rebound virale.

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Africa, profilassi con cotrimoxazolo utile anche con alte conte dei CD4

Interrompere la profilassi con cotrimoxazolo ha mostrato di aumentare il rischio di gravi infezioni batteriche e malaria in pazienti che assumono la ART in Uganda, come attestano i risultati di uno studio randomizzato.
Questo anche se i pazienti avevano conte dei CD4 elevate. Ora, le attuali linee guida in merito indicano che la profilassi con cotrimoxazolo può essere interrotta in pazienti adulti in regime di ART che hanno ottenuto la soppressione virale e iniziano a mostrare un recupero immunitario. Vero è però che la stessa OMS ha sottolineato come le evidenze a sostegno di questa raccomandazione non siano del tutto convincenti.
Il cotrimoxazolo è un antibiotico usato per trattare le infezioni batteriche. Può anche essere assunto regolarmente come farmaco preventivo, non solo per le infezioni batteriche ma anche per la malaria. Quando assunto su base regolare, però, esso può dare effetti collaterali, senza contare che aumenta il numero di farmaci da assumere per il paziente e da fornire per le farmacie.
Non sapendo con certezza quale beneficio effettivamente apporti alle persone in terapia antiretrovirale stabile, si è deciso di studiarne l'impatto in un contesto dove infezioni batteriche e malaria avevano un'elevata prevalenza. È stato dunque condotto uno studio nell'Uganda rurale a cui hanno partecipato oltre 2000 pazienti con una conta mediana dei CD4 di 518 cellule/mm3.
Coloro che sono stati randomizzati per ricevere un placebo hanno mostrato un tasso più alto di infezioni (2,9 per 100 persone/anni) rispetto a quelli che hanno invece continuato ad assumere il cotrimoxazolo (1,8 per 100 persone/anni). Gli eventi verificatisi con più frequenza sono state le polmoniti di origine batterica e le infezioni delle vie respiratorie superiori; anche la malaria si è riscontrata con più frequenza nei soggetti che avevano interrotto la profilassi con cotrimoxazolo.

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CROI 2015 - Secondo Bollettino

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TERZO BOLLETTINO

Epatite C, alti tassi di cura in pazienti HIV+ con due regimi senza interferone

È di ben 95% il tasso di cura dell'epatite C ottenuto con due regimi della durata di 12 settimane a base di due farmaci privi sia di interferone che ribavirina in pazienti con coinfezione HIV/HCV. Lo dicono due studi presentati questa settimana al CROI.
Il primo è un regime a base di sofosbuvir più ledipasvir (nella coformulazione Harvoni), prodotto da Gilead; il secondo invece è costituito da sofosbuvir (Sovaldi) più daclatasvir (Daklinza), quest'ultimo prodotto da Bristol-Myers Squibb. Sia il ledipasvir che il daclatasvir sono due inibitori dell'NS5A.
In ambo gli studi, i tassi di risposta nei soggetti con coinfezione sono risultati non inferiori a quelli ottenuti in altri studi con pazienti affetti dal solo virus HCV. Sono dati che vanno ulteriormente a supportare le recenti linee guida sul trattamento dell'epatite C, in cui si raccomanda che nel trattamento di questa patologia epatica non si faccia differenza in base allo stato sierologico del paziente.
La combinazione sofosbuvir più ledipasvir (Harvoni) è stata sperimentata in uno studio in aperto non randomizzato condotto su 335 pazienti con coinfezione. I criteri di ammissione erano molto ampi, e tra i partecipanti c'era anche, rispetto a molti altri studi, una maggior quantità di gruppi notoriamente difficili da trattare (come pazienti che già in passato non avevano risposto al trattamento o pazienti cirrotici). Quasi tutti i partecipanti erano affetti da HCV di genotipo 1; oltre la metà avevano già avuto dei fallimenti terapeutici e i tre quarti di loro presentavano varianti genetiche sfavorevoli dell'IL28B. Tutti assumevano la terapia antiretrovirale e la maggior parte aveva carica virale non rilevabile.
I partecipanti hanno assunto una compressa monogiornaliera per 12 settimane, dopodiché sono stati seguiti al follow-up per verificare che ci fosse risposta virologica sostenuta per altre 12 settimane (SVR12), ossia che il virus dell'epatite C restasse stabilmente irrilevabile. Il complessivo tasso di SVR12 ottenuto in questi pazienti è stato del 96%, un dato affine a quello registrato per pazienti con monoinfezione. Altri fattori come un trattamento pregresso oppure la presenza di cirrosi epatica o di varianti resistenti dell'NS5A non hanno mostrato di incidere significativamente sul tasso di cura.
Va rilevato tuttavia che i tassi di SVR12 sono stati leggermente inferiori nei partecipanti di etnia nera, un dato che non trova corrispondenza negli studi su pazienti monoinfetti. Una possibile spiegazione – da verificare – è che nei pazienti che assumono il ledipasvir insieme agli antiretrovirali la risposta farmacologica possa essere influenzata da fattori genetici.
Per lo studio su sofosbuvir (Sovaldi) più daclatasvir (Daklinza), sono invece stati arruolati 151 pazienti coinfetti naive al trattamento, che sono stati randomizzati per ricevere un ciclo di trattamento di 8 oppure 12 settimane; altri 52 partecipanti non naive hanno invece tutti assunto il trattamento per 12 settimane. Quasi tutti assumevano la terapia antiretrovirale e avevano carica virale HIV non rilevabile.
La maggior parte presentava HCV di genotipo 1a, ma sono stati inclusi anche pazienti con genotipi 2/6: uno dei vantaggi del daclatasvir, infatti, è proprio quello di essere efficace con svariati genotipi, mentre il ledipasvir agisce principalmente contro il genotipo 1.
Si sono registrati tassi di cura meno elevati nei partecipanti randomizzati per assumere la compressa monogiornaliera per 8 settimane (SVR12 del 76%), mentre il ciclo di trattamento di 12 settimane ha dato ottimi risultati, con una SVR12 del 96% nei pazienti naive e del 98% in quelli non naive. I dati sono risultati simili per tutti i genotipi.
Entrambi i regimi sperimentati hanno mostrato di essere generalmente sicuri e ben tollerati.

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Non hanno impatto i programmi per l'astinenza sovvenzionati dal PEPFAR

Una serie di programmi volti a promuovere l'astinenza e la fedeltà di coppia nell'Africa subsahariana non hanno praticamente avuto alcun impatto sul comportamento dei partecipanti in 14 paesi, nonostante un investimento di quasi 1,3 miliardi di dollari da parte degli Stati Uniti: lo dimostra un'analisi preliminare dei dati sul comportamento sessuale raccolti.
Il PEPFAR (Piano Presidenziale di Emergenza contro l'AIDS) è stato lanciato nel 2004, con la richiesta da parte del Congresso USA che una quota fissa dei fondi venisse destinata a programmi per promuovere l'astinenza sessuale, la posticipazione dei primi rapporti e la fedeltà di coppia. Il piano ha sovvenzionato anche programmi che promuovevano la riduzione del numero di partner. Per quanto possa essere sensata dal punto di vista epidemiologico l'ipotesi che non avere i primi rapporti troppo presto e ridurre l'attività sessuale possa far diminuire le possibilità di contrarre l'HIV, specialmente per le ragazze, a tutt'oggi non ci sono interventi di comprovata efficacia per raggiungere tali obiettivi.
Gli autori hanno raffrontato le tendenze nel comportamento sessuale rilevate in indagini demografiche e sanitarie in 14 paesi chiave del PEPFAR con quelle di otto altri paesi nordafricani dove i contenuti degli interventi per la prevenzione dell'HIV non sono stati influenzati dal PEPFAR.
In entrambi i gruppi di paesi è stata registrata la tendenza, per gli uomini, ad avere meno partner sessuali, ma i ricercatori non sono riusciti a rilevare modifiche del comportamento che potessero essere messe in diretta relazione con il PEPFAR, neppure nei paesi in cui i fondi elargiti sono stati più cospicui.

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Nuova formulazione del tenofovir: pari efficacia e maggiore sicurezza

Il tenofovir alafenamide (TAF), nuova formulazione che mantiene basse concentrazioni nel sangue ma raggiunge alti livelli nelle cellule, ha un'efficacia pari a quella del suo predecessore, il tenofovir disoproxil fumarato (TDF). E, inoltre, ha meno effetti collaterali del TDF su reni e ossa.
Il tenofovir disoproxil fumarato (Viread) è uno degli antiretrovirali più diffusi. È un componente della coformulazione Truvada e dei regimi monocompressa con Atripla, Eviplera/Complera e Stribild. Si tratta di un farmaco altamente efficace e generalmente sicuro e ben tollerato, ma in alcuni pazienti può dare problemi a reni o ossa.
Il nuovo pro-farmaco TAF, invece, rilascia più efficacemente il principio attivo – il tenofovir difosfato – nelle cellule infettate dal virus dell'HIV, raggiungendo sufficienti livelli intracellulari a dosaggi inferiori: quindi le concentrazioni plasmatiche sono più basse e di conseguenza reni, ossa e altri organi e tessuti sono meno esposti.
Mentre saranno presto disponibili in molti mercati occidentali versioni generiche meno costose del tenofovir disoproxil fumarato, il TAF è un prodotto nuovo su cui il produttore Gilead gode dell'esclusiva brevettuale.
Alla Conferenza sono stati presentati dati che mettevano a confronto la coformulazione Stribild (elvitegravir, cobicistat, emtricitabina e TDF) con una coformulazione in cui il TDF era sostituito dal TAF. Alla sperimentazione hanno preso parte circa 1700 pazienti naive in Europa, Nord America, America Latina e Asia.
Dopo 48 settimane di trattamento, i due regimi hanno mostrato entrambi alti livelli di efficacia, il che dimostra che la coformulazione con TAF non è inferiore a quella con TDF. I tassi di soppressione virale hanno superato il 90% in entrambi i bracci dello studio, a prescindere da fattori come età, sesso, etnia, HIV-1 RNA e conta dei CD4. Meno dell'1% dei partecipanti di entrambi i bracci hanno sviluppato mutazioni di resistenza primaria.
Complessivamente, non si sono riscontrate differenze neanche nei tassi di effetti collaterali ed eventi avversi gravi.
Particolare attenzione è stata prestata agli effetti collaterali a carico dei reni. In confronto al TDF, con il TAF non si sono registrate interruzioni del trattamento a causa dell'insorgenza di complicanze renali, mentre notevolmente inferiore è stata la diminuzione dell'eGFR (la velocità di filtrazione glomerulare stimata); inferiori sono risultate anche proteinuria, albuminuria e proteinuria tubulare.
Per quanto riguarda la salute ossea, il TAF si è mostrato molto meno impattante sulla densità minerale ossea a livello della colonna vertebrale (perdite di almeno il 3% riscontrate nel 26% dei partecipanti, contro il 45% del gruppo del TDF) e dell'anca (perdite di almeno il 3% riscontrate nel 17% dei partecipanti, contro il 50% del gruppo del TDF).
La coformulazione studiata è stata sottoposta alle agenzie del farmaco statunitensi ed europee per essere approvata.
Gilead sta inoltre mettendo a punto una coformulazione di TAF ed emtricitabina alternativa al Truvada, che potrebbe essere impiegata anche nella profilassi pre-esposizione (PrEP).

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Le treatment cascades nei paesi africani

In Sudafrica è attivo il più ampio programma per l'accesso alle terapie antiretrovirali del mondo: da un'analisi della treatment cascade del paese, tuttavia, emerge la necessità di migliorare ancora la ritenzione in cura, soprattutto dei pazienti maschi e di quelli più giovani. Solo così sarà possibile sfruttare al meglio l'effetto preventivo della terapia.
Dei 2,5 milioni di uomini HIV-positivi che vivono in Sudafrica, infatti, soltanto il 39% risulta agganciato al sistema sanitario; il 27% è attualmente in terapia antiretrovirale e il 19% ha raggiunto la soppressione virologica.
Per quanto riguarda le donne, invece, sono 3,9 milioni quelle HIV-positive; il 58% di loro risultano agganciate al sistema sanitario; il 38% di loro sono in terapia; e il 28% sono in soppressione virologica.
I giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni, invece, hanno meno probabilità di essere in terapia o aver raggiunto la soppressione virologica rispetto ai pazienti più adulti, malgrado i tassi di invio alle cure siano simili.
Un secondo studio, basato su dati provenienti da tre comunità in Kenya, Malawi e Sudafrica, sembra indicare che – per massimizzare il potenziale preventivo delle terapie – gli sforzi volti ad ampliare l'accesso al trattamento debbano concentrarsi in primo luogo sui pazienti che presentano livelli più elevati di carica virale – ossia praticamente quelli che sono già considerati eleggibili per ricevere il trattamento secondo le linee guida attualmente in vigore.
Sono circa 19.000 le persone che hanno partecipato a quest'indagine, e di esse poco più di 4000 sono risultate positive al test per l'HIV. La maggior parte di coloro che ha avuto diagnosi positiva sarebbe già eleggibile per il trattamento secondo le linee guida nazionali, seppur con delle differenze da paese a paese a causa dei diversi criteri di inclusione (il 60% in Kenya, il 69% in Sudafrica e l'80% in Malawi).
I ricercatori si sono concentrati sui valori di carica virale di coloro che non assumevano il trattamento per l'HIV. Ne è risultato che meno di un quarto degli individui non trattati con conte dei CD4 comprese tra le 500 e le 750 cellule/mm3 presentavano livelli di carica virale molto elevati (oltre le 100.000 copie/ml), che sono associati a un alto rischio di trasmissione del virus.
Al contrario, gli individui non trattati con conte dei CD4 inferiori alle 350 cellule/mm3 che presentavano livelli di carica virale così alti erano oltre la metà.
Questo fa pensare che, per sfruttare al massimo l'effetto preventivo delle terapie antiretrovirali, occorra intensificare gli sforzi per raggiungere coloro che già sono eleggibili per il trattamento secondo le attuali linee guida. Sarebbe un intervento più efficace dell'innalzamento della soglia dei CD4 per l'inizio del trattamento.
Al contempo, secondo uno studio presentato al CROI il giorno precedente, far iniziare il trattamento quando la conta dei CD4 è ancora superiore alle 500 cellule/mm3 è di enorme beneficio a livello di salute individuale.

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Nessun evento di trasmissione dell'HIV in studio su coppie omosessuali

Da una prima analisi dei risultati di uno studio con base in Australia condotto su coppie omosessuali di stato sierologico opposto (o sierodiscordanti), è stato rilevato come non si siano verificate finora trasmissioni del virus da parte del partner HIV-positivo. Questi dati osservazionali provenienti dallo studio Opposites Attract andrebbero a confermare quelli dell'analisi ad interim del più ampio studio PARTNER, presentati al CROI un anno fa, quando gli autori di PARTNER avevano riferito di non aver rilevato eventi di trasmissione in 16.400 rapporti anali (rapporti protetti compresi) avvenuti tra maschi omosessuali.
Per questo nuovo studio la fase di arruolamento è iniziata nella seconda parte del 2013 in tre città australiane (Sydney, Melbourne e Brisbane), ma adesso include anche partecipanti di Bangkok in Thailandia e Rio de Janeiro in Brasile. Gran parte dei partner HIV-positivi sono in terapia antiretrovirale e hanno carica virale non rilevabile.
Durante il primo anno, sono state 152 le coppie che hanno fornito i loro dati, per un totale di 5905 rapporti anali riferiti. Finora, non si è verificato alcun evento di trasmissione all'interno delle coppie (cd. eventi di trasmissione linked).
Dato che il numero di soggetti arruolati finora è relativamente piccolo, si tratta di dati ancora gravati da qualche incertezza. Il fatto che non si siano verificate trasmissioni, infatti, non significa necessariamente che il rischio di trasmissione sia zero. Gli autori calcolano che, in questa popolazione, la percentuale più elevata di rischio di trasmissione nei rapporti anali non protetti con il partner HIV-positivo (indipendentemente dal livello di carica virale) sia di un 4%, che sale al 7% quando il partner HIV-negativo è recettivo.
Tuttavia, come per PARTNER, man mano che vengono raccolti altri dati è probabile che queste cifre scendano sempre di più a zero.

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Cala l'incidenza HIV in Uganda grazie alla circoncisione

L'avvio dei programmi per la circoncisione medica nella provincia rurale di Rakai, in Uganda, sta avendo un notevole impatto sul numero di nuove diagnosi di infezione da HIV negli uomini. Sono dati che provengono da uno dei siti dove è stato condotto uno studio randomizzato controllato della circoncisione, che mostrano come questa procedura possa veramente fare la differenza al di fuori del contesto sperimentale.
La percentuale di uomini non-musulmani che hanno effettuato l'intervento è salita dal 9% del 2007, anno di inizio dello studio, al 26% del 2011.
Dopo aver operato un aggiustamento includendo altri fattori che potrebbero aver avuto un impatto sul tasso di trasmissioni HIV (come per esempio una maggior diffusione della terapia antiretrovirale), si è calcolato che ogni aumento del 10% nell'espansione dei programmi per la circoncisione corrispondeva a una riduzione del 12% dell'incidenza dell'HIV negli uomini.
Non diminuisce invece per adesso l'incidenza dell'HIV nelle donne.

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La versione in pdf del bollettino è disponibile qui:

Allegati:

CROI 2015 - Terzo Bollettino

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LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXII Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche, in corso a Seattle, negli Stati Uniti, dal 23 al 26 febbraio 2015.

 

 

QUARTO BOLLETTINO


Tre ARV associati a un aumentato rischio di malattia renale

Stando a un'analisi dell'ampia coorte osservazionale D:A:D, tre farmaci antiretrovirali sarebbero associati a un lento aumento, nel tempo, del tasso di malattia renale. I farmaci in questione sono tenofovir, atazanavir potenziato e lopinavir potenziato
Gli studiosi hanno valutato il rischio di sviluppare una malattia renale cronica (eGFR inferiore a 60 ml per minuto) da parte di soggetti che presentavano normale funzionalità renale al momento dell'inclusione nella coorte. La stima della velocità di filtrazione glomerulare, o eFGR (estimated glomerular filtration rate), è una misura indiretta della quantità di sangue filtrata al minuto dai reni, ed è un metodo utilizzato per valutare la funzionalità renale. Sono stati raccolti dati su 23.560 pazienti nell'arco di otto anni.
Complessivamente, il rischio è risultato poco elevato: meno dell'1% dei partecipanti (210 pazienti) ha sviluppato una malattia renale cronica.
Come atteso, svariati altri fattori sono risultati associati alla malattia renale: età più avanzata, ipertensione, epatite C, diabete, malattia cardiovascolare, bassi livelli di CD4 in passato e pregresso uso di stupefacenti per via iniettiva.
Tuttavia è stata riscontrata anche un'associazione con taluni antiretrovirali, e più a lungo venivano assunti, più il rischio aumentava. L'incidenza è risultata del 2,2% dopo sei anni di tenofovir; del 4% dopo sei anni di atazanavir potenziato; e ancora del 4% dopo sei anni di lopinavir potenziato.
Dopo la correzione per altri fattori di rischio di malattia renale, ogni anno di assunzione di tenofovir è risultato associato a un aumento del 12% del rischio relativo; ogni anno di atazanavir potenziato a un aumento del 27%; e ogni anno di lopinavir potenziato a un aumento del 16%.
Di contro, non sono state riscontrate associazioni con aumenti del rischio né per l'abacavir né per altri inibitori della proteasi. I dati disponibili, tuttavia, non erano sufficienti per l'analisi di altri singoli farmaci.
Per quanto la malattia renale resti poco diffusa e più correlata ad altri fattori di rischio 'tradizionali' piuttosto che all'assunzione di antiretrovirali, è probabile che questi dati forniscano informazioni utili ai medici che prescrivono un regime antiretrovirale, specialmente a pazienti che presentano altri fattori di rischio di problemi a carico dei reni.

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Treatment cascade, incentivi in denaro risultano inefficaci in città americane
In uno studio americano è stata sperimentata l'offerta di incentivi in denaro ai pazienti perché accettassero di intraprendere il percorso di cura dopo la diagnosi di HIV, e di ulteriori incentivi se riuscivano a restare in cura e se raggiungevano una carica virale non rilevabile: nella maggior parte dei casi, però, non si sono raggiunti i risultati sperati. Dei miglioramenti a seguito dell'intervento si sono invece registrati in qualche piccola struttura che faticava a mantenere i pazienti nel continuum di cure.
Gli incentivi in denaro, in passato, si erano dimostrati efficaci nel coinvolgimento dei consumatori di sostanze stupefacenti e, in alcuni studi africani, avevano consentito un miglioramento degli outcome terapeutici per l'HIV.
Lo studio si è svolto in due aree urbane afflitte da pressanti problemi sociali ed economici: Washington e il Bronx, a New York. Svariate decine di centri diagnostici e ambulatori specialistici sono stati interessati dalla sperimentazione: alcuni sono stati randomizzati per continuare a offrire cure standard, altri per proporre gli incentivi. In questi ultimi, ai pazienti che ricevevano una diagnosi HIV veniva offerto un buono di 25 dollari se si fossero presentati a una visita nei tre mesi successivi, e uno di altri 100 dollari se avessero elaborato un piano di assistenza con il medico. Avrebbero poi ricevuto un altro buono di 70 dollari ogni tre mesi se si fossero presentati alle visite successive e avessero raggiunto la soppressione virologica.
Alla prova dei fatti, tuttavia, gli incentivi non hanno inciso in modo statisticamente significativo sulla percentuale di pazienti che si presentava alla visita nei tre mesi successivi alla diagnosi, né in quella di pazienti che raggiungeva la soppressione. L'unico miglioramento, lieve (8%) ma pur sempre statisticamente rilevante, si è registrato nella percentuale di pazienti che si presentavano ad almeno quattro visite su cinque.
I miglioramenti più rilevanti sono stati osservati in strutture che prima dell'intervento avevano risultati insoddisfacenti in termini di ritenzione in cura, tendenzialmente i centri più piccoli e carenti di risorse. Gli autori ritengono che un siffatto sistema di incentivi possa comunque incidere positivamente sulle treatment cascades in specifici siti e gruppi di popolazione.

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Tumori, tumori polmonari e fumo
Resta altissima l'incidenza di tumori negli ultrasessantacinquenni americani che vivono con l'HIV, malgrado l'ampia diffusione della terapia antiretrovirale: è quanto emerge da alcuni studi presentati al CROI. Il rischio di tumore può essere collegato sia all'infezione da HIV che all'invecchiamento.
Gli studiosi hanno raccolto dati relativi al periodo 2002/2009 di un campione di 5% di pazienti iscritti a Medicare (il programma nazionale di assistenza agli ultrasessantacinquenni in vigore negli Stati Uniti), rapportandoli con i dati di un registro tumori. Il campione finale consisteva in oltre 450.000 pazienti, di cui qualche centinaio affetto dal virus dell'HIV.
Nel complesso, in un arco di tempo di cinque anni il 10,2% dei pazienti HIV-positivi di questa fascia d'età ha ricevuto una diagnosi di tumore. In termini assoluti, i più frequenti sono stati il tumore alla prostata e ai polmoni: tuttavia i tassi di tumori alla prostata non differivano da quelli rilevati in pazienti HIV-negativi.
Alcuni tipi di tumore, tuttavia, sono risultati notevolmente più diffusi nei pazienti HIV-positivi: si tratta sia dei cosiddetti tumori AIDS-definenti (per esempio il linfoma non-Hodgkin, rapporto di rischio 3,0; e il sarcoma di Kaposi, rapporto di rischio 79,2), sia di altri tipi di neoplasie già note per essere più diffuse nei pazienti HIV-positivi più giovani (per esempio il carcinoma anale, rapporto di rischio 32,4; e il tumore polmonare, rapporto di rischio 1,5).
In un secondo studio sono stati invece presi in esame i tassi di tumore in oltre 39.000 americani HIV-positivi, escludendo però i casi di tumore AIDS-definente. In un arco di tempo di dieci anni, sono stati quasi 600 i partecipanti che hanno avuto una diagnosi di tumore non-AIDS-definente, e tra questi il più diffuso è risultato il tumore al polmone. Scopo degli autori era valutare in che misura l'insorgenza del tumore non-AIDS-correlato poteva essere attribuita al fumo piuttosto che ad altri fattori di rischio correlati all'HIV (frazione attribuibile nella popolazione).
Il risultato è che si potrebbe evitare il 37% dei casi di tumore se tra le persone con HIV ci fosse lo stesso tasso di fumatori che nella popolazione generale. Il fumo è risultato di gran lunga il più rilevante fattore di rischio modificabile: incide di più, per esempio, che mantenere la conta dei CD4 sempre al di sopra delle 200 cellule/mm3, o avere una carica virale rilevabile, o un'infezione epatica.
Mentre non si smette di sottolineare l'importanza dei programmi per aiutare le persone HIV-positive a smettere di fumare, alla Conferenza sono stati presentati i risultati di uno studio randomizzato su una sostanza utilizzata per trattare la dipendenza da fumo, la vareniclina (Champix/Chantix). http://www.aidsmap.com/page/2950745/ La sperimentazione ha interessato un gruppo di fumatori HIV-positivi in Francia, che per 12 settimane hanno assunto o la vareniclina o un placebo, usufruendo anche di interventi di counselling.
Il farmaco ha inizialmente aiutato a smettere di fumare una percentuale molto più alta di partecipanti; tuttavia, dopo 48 settimane, solo il 17,6% risultava non fumare più, contro il 7,2% del braccio del placebo. Sono dati simili a quelli già osservati in popolazioni HIV-negative che facevano uso di vareniclina, bupropione (Zyban, Wellbutrin), prodotti alla nicotina come i cerotti transdermici, oppure che si aiutavano solo con il counselling. Nessun intervento ha dato da solo prova di efficacia per più di un quarto/un terzo della popolazione che ne ha usufruito. È possibile che sia più efficace combinare insieme vari interventi piuttosto che affidarsi a uno solo di questi metodi.

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Epatite C, rinviare il trattamento aumenta il rischio di tumore e morte
I pazienti con coinfezione HIV/HCV che rinviano il trattamento dell'epatite C finché non sviluppano una patologia epatica di stadio avanzato restano a rischio di complicanze e morte per cause epatiche, come rivela uno studio basato su modelli matematici.
Durante l'era della terapia anti-epatite C a base di interferone, gli esperti generalmente raccomandavano ai pazienti di rinviare il trattamento fino a che non si osservava una progressione della malattia epatica. Sebbene i farmaci anti-epatite C di nuova generazione siano più efficaci e diano meno effetti collaterali, infatti, il loro uso è stato ed è limitato dai loro costi elevati, tanto che alcune compagnie assicurative e sistemi di assicurazione sanitaria pubblici e privati coprono i costi del trattamento solo per i pazienti più gravi.
Nello studio è stato applicato un modello matematico ai dati relativi a un gruppo di MSM (uomini che fanno sesso con uomini) in Svizzera.
Questi i risultati: se il trattamento con la terapia anti-epatite C di nuova generazione veniva iniziato entro un anno dalla diagnosi, solo il 2% dei pazienti alla fine sviluppava un tumore epatico maligno (epatocarcinoma) e solo il 3% moriva per complicanze collegate alla patologia epatica. Non si sono invece riscontrati vantaggi nell'iniziare il trattamento un mese dopo la diagnosi anziché un anno.
Se invece il trattamento era rinviato fino a che il paziente non sviluppava una fibrosi epatica grave (stadio F3), la percentuale di coloro che sviluppavano un epatocarcinoma saliva all'8% e quella di coloro che morivano per complicanze al 10%. Inoltre, se si attendeva finché la fibrosi non degenerava in cirrosi (stadio F4), queste percentuali aumentavano rispettivamente al 20 e 25%.
Va rilevato che il rischio che questi gravi eventi si verificassero non era ridotto a zero neppure con i più moderni ed efficaci trattamenti. Nella maggior parte dei casi, essi si verificavano dopo la guarigione dall'epatite C in pazienti con precedenti di grave fibrosi o cirrosi.
Rimandare il trattamento incide anche sulla durata del periodo in cui i pazienti erano infettivi: circa cinque anni per quelli che assumevano la terapia entro un anno dalla diagnosi, contro 15 per coloro che rimandavano fino a che non avevano sviluppato una fibrosi grave e fino a circa 20 anni se attendevano fino a sviluppare una cirrosi.
Sono dati che depongono a favore di un inizio precoce della terapia anti-epatite C, prima che il danno epatico sia significativo. Tuttavia, da un secondo studio emergerebbe che, attualmente, circa la metà degli americani affetti da epatite C ha già sviluppato fibrosi grave o cirrosi. Tali casi si concentrano prevalentemente nella cosiddetta generazione dei 'baby boomers', coloro che sono oggi tra i 50 e 70 anni d'età.

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Impiego del maraviroc nella PrEP
La ricerca relativa alla PrEP (profilassi pre-esposizione) per adesso si è prevalentemente concentrata sulla combinazione tenofovir/emtricitabina (Truvada), ma ci sono anche ricercatori al lavoro su altri agenti antiretrovirali da assumere in varie modalità (compresse, gel, anelli vaginali).
In particolare, è in corso uno studio di fase 2 sull'inibitore di ingresso maraviroc in compressa (Celsentri/Selzentry). È un'opzione interessante perché il maraviroc agisce in una delle prime fasi dell'infezione, impedendo al virus dell'HIV di agganciarsi al co-recettore CCR5 che tipicamente utilizza per infettare le cellule (altri antiretrovirali mirano invece a inibire la replicazione virale quando il virus è già entrato nella cellula ospite).
I ricercatori sperano inoltre che le nuove formulazioni per la PrEP riescano a raggiungere alte concentrazioni nei tessuti vaginali e rettali con una sola dose, risultando così particolarmente indicate in caso di rapporti programmati.
Da uno studio di laboratorio presentato alla Conferenza, tuttavia, sembrerebbe che un'unica somministrazione non sia sufficiente. A qualche ora di distanza dall'assunzione del maraviroc, ai partecipanti allo studio sono stati prelevati con una biopsia dei campioni di tessuto rettale e vaginale, che sono stati successivamente esposti all'HIV.
Le concentrazioni di farmaco restavano elevate fino a quattro ore dopo l'assunzione, ma diminuivano drasticamente subito dopo. E, soprattutto, l'effetto protettivo antivirale era limitato.
Tuttavia sono state sollevate obiezioni sull'effettiva affidabilità di tali analisi di laboratorio per prevedere come i risultati che il maraviroc potrebbe ottenere in vivo. Senza contare che lo studio non ha considerato il livello di protezione che sarebbe offerto dall'assunzione di dosi multiple.


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BMS-663068, una nuova molecola per pazienti non naive
Sono incoraggianti i risultati a 48 settimane di uno studio di fase 2b della Bristol-Myers Squibb sul BMS-663068 (fostemsavir) presentati al CROI
Si tratta di una molecola appartenente a una nuova classe di antiretrovirali, gli inibitori dell'aggancio. Il BMS-663068 si lega direttamente alla proteina gp120, gli 'spunzoni' sull'involucro dell'HIV, impedendo così al virus di agganciarsi alla cellula CD4 per penetrarla. Gli antagonisti del CCR5 come il maraviroc (Celsentri/Selzentry) e gli inibitori della fusione come l'enfuvirtide (Fuzeon) agiscono in fasi successive del ciclo di vita dell'HIV: perciò il BMS-663068 avrebbe il vantaggio di essere efficace con ceppi dell'HIV che sfruttano non solo il recettore CCR5 ma anche il CXCR4.
Per lo studio sono stati arruolati 254 pazienti con esperienza di trattamento pregressa, la maggioranza dei quali avevano avuto un fallimento terapeutico nel trattamento di prima o seconda linea oppure avevano sviluppato farmacoresistenze. Due partecipanti su cinque avevano una conta dei CD4 inferiore alle 200 cellule/mm3. Dato che l'arruolamento si è svolto in paesi a medio reddito, allo studio ha partecipato un numero maggiore di donne, pazienti di etnia nera e pazienti con sottotipo HIV diverso dal B rispetto agli studi precedenti.
I partecipanti sono stati randomizzati per ricevere il BMS-663068 (in uno di quattro diversi dosaggi, da assumere o una o due volte al giorno) insieme a raltegravir e tenofovir. Ai pazienti del gruppo di controllo sono stati somministrati atazanavir potenziato con ritonavir, raltegravir e tenofovir.
Alla 48° settimana sono stati registrati tassi di risposta simili: tra il 61 e l'82% dei pazienti nel braccio del BMS-663068 avevano una carica virale non rilevabile (con variazioni attribuibili al dosaggio), contro il 71% del braccio dell'atazanavir. Il nuovo farmaco si è dimostrato generalmente sicuro e ben tollerato in tutti i dosaggi sperimentati.
Dall'analisi delle potenziali interazioni farmacologiche si deduce che il BMS-663068 può essere associato in tutta sicurezza a darunavir e/o etravirina, senza bisogno di rivedere il dosaggio. Questi farmaci sono molto utilizzati dai pazienti con fallimenti terapeutici alle spalle.

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La traduzione dei bollettini è a cura di LILA Onlus, con il sostegno del Circolo Aziendale GD.
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